
Auguri Capitano di Coppa Campioni
Oggi Ago avrebbe compiuto gli anni e caricato la squadra per Manchester.Ha tirato il rigore più importante per noi, ci ha portato dove nessun altro è mai arrivato.Per sempre
MASSIMO IZZI
Quell’8 aprile del 1955, intorno
alle 21, il telefono
suonò in un appartamento
del Tuscolano.
Franco Di Bartolomei, a
casa con la primogenita
Daniela, di quattro anni,
apprese con gioia che suo
figlio era venuto al mondo.
Il nome era già deciso da tempo,
si sarebbe chiamato Agostino,
come il nonno materno, venuto
da poco a mancare. L’indomani
papà Franco si presentò in clinica
con il primo regalo per il piccolo
Agostino, un pallone adocchiato
in un negozio di articoli sportivi e
subito acquistato per obbedire ad
un’ispirazione arrivata chissà da
dove. SEGUE DALLA PRIMA
Franco Di Bartolomei era romanista,
aveva iniziato a seguire la squadra giallo-
rossa sin dai tempi di Testaccio, gli
sembrò naturale fare dono a suo figlio
di quel balocco così particolare, una
sfera di cuoio dentro cui erano stipati
ricordi, sentimento, speranze e, cosa
più importante, amore. Anche oggi, se

Ago fosse ancora tra noi, quel pallone lo
avrebbe avuto sempre accanto, sarebbe
magari stato pronto a denunciarne le
smagliature, i buchi che qua e là si trasformano
in voragini, ma non si sarebbe
stancato mai di vederlo rimbalzare.
Di un’altra cosa si può essere sicuri,
Agostino avrebbe viaggiato e girato il
mondo come cronista se ne avesse avuto
l’occasione, e si sarebbe divertito un
mondo a seguire la Roma in questo suo
viaggio della speranza a Manchester.
Amava scoprire nuovi luoghi, diverse
culture, gli piaceva anche quando da
atleta, candidamente ammetteva:
«Quando gioco in una città che non conosco,
cerco di assimilarne gli aspetti
più importanti e caratteristici, anche se
il tempo a disposizione è poco. Credo
che uno dei vantaggi migliori per un
giovane calciatore sia quello di poter
viaggiare. Così passo il tempo libero
guardandomi attorno, leggendo e studiando.
Ecco, credo che potrei stare
senza mangiare ma non senza leggere
».
Per questa sua diversità, Di Bartolomei
colpiva subito, persino un uomo
dal vissuto di Enzo Tortora, quando nel
febbraio del 1977 ebbe modo di conoscerlo,
ne rimase sorpreso, al punto di
scrivere: «Un ragazzo strano questo Di
Bartolomei, fuori dagli schemi soliti
del giovane arrivato prima alla popolarità
e poi alla maturità. Per esempio se
ne va in giro con una “126”, quando i
calciatori della sua età, con i primi guadagni,
si comprano fuoriserie». In
quella breve chiacchierata, a guardar
bene, c’è tutta l’intuizione, lo splendore
e il malessere di due uomini, Tortora
e Di Bartolomei irripetibili. Quando il
giornalista gli chiede: «Dunque Di Bartolomei
ha paura del suo mito, dell’astro
nascente che sta sorgendo con
lei?», Ago risponde secco: «Sì. In questo
mondo sì (…)».
Amava il campo il nostro capitano,
anche perché lì, su quel perimetro verde,
poteva liberarsi di tutte le paure, farle
saltare con le sue bordate. Non avrebbe
avuto paura di giocare a Manchester,
come non ebbe paura, il 25 aprile del
1984, quando la Roma fu chiamata a recuperare
due reti al Dundee United per
accedere alla finale di Coppa dei Campioni.
Aveva tanta rabbia in corpo Agostino,
nella vigilia di quella gara, Il Barone
Liedholm, lo aveva lasciato in tribuna
nell’importantissima gara contro la Juventus
del 15 aprile. La classifica, quel
giorno, vedeva i bianconeri in testa al
campionato con 37 punti e la Lupa inseguire
a tre lunghezze. Battere i bianconeri,
quando al termine del torneo
mancavano ancora quattro giornate,
avrebbe voluto dire rimettere in bilico
assoluto l’assegnazione del titolo. Il record
d’incasso fatto registrare all’Olimpico
(1.163.190.000 lire), dimostrò
quanto i tifosi tenessero a quella gara,
ma a mettere paura alla Juventus, pensò
solo una traversa di Roberto Pruzzo.
Quel giorno, come detto, Liedholm preferì
puntare sulla coppia centrale Bonetti
– Righetti e per il capitano fu un
autentico dolore. A ventinove anni da
poco compiuti si era sentito abbandonato,
non tanto dal suo maestro svedese,
quanto dalla Società, che aveva accompagnato
quell’esclusione con un
distacco che assomigliava ad un addio.
Di Bartolomei capì proprio allora
che la storia con la Roma volgeva verso
il passo d’addio. Rilasciò un’intervista
al Messaggero, carica di segnali trasversali,
giocando con l’arma dell’ironia.
Su una cosa, però, fu di una chiarezza
deflagrante: «Contro il Dundee
giocherò con più rabbia». Quella rabbia,
viene trasformata in intelligenza
quando l’arbitro Vautrot rilevò un cristallino
calcio di rigore in seguito all’abbattimento
in area di Roberto Pruzzo.
Di Bartolomei studiò il gigantesco
McAlpine e lo spiazzò senza lasciargli la
benché minima possibilità di abbozzare
la parata. Candido Cannavò, non certo
un cantore delle imprese della squadra
giallo-rossa, scrisse sulle pagine
della Gazzetta dello Sport: «La Roma è
stata talmente grande da dare la sensazione
che il suo capolavoro fosse in
realtà una semplice operazione aritmetica
da scuola elementare». Quattro
giorni più ardi, nel match contro la Fiorentina,
la Curva Sud accolse il proprio
capitano con questo striscione: «AGOSTINO
E’ LA ROMA, NON PUO’ ANDARE
VIA».
Andò via invece, “Ago”, e una volta

appese le scarpette bullonate al chiodo
iniziò a scrivere. Qualcuno ha detto e
scritto che per i tempi dilatati e la scarsa
propensione agli entusiasmi a saldo,
Di Bartolomei non fosse adatto ai salotti
televisivi. Può darsi, ma di certo era
una “penna” di prim’ordine, come dimostrato
nella collaborazione per Paese
Sera. Tanti quotidiani, ci sembra
scontato, oggi, gli avrebbero chiesto di
inquadrare il match e rivolgere un invito
alla squadra. Cosa avrebbe scritto il
capitano non possiamo proprio saperlo,
piace credere che almeno una cosa
non avrebbe evitato di dirla: «Impresa
possibile? Impossibile? Nel dubbio, ragazzi
tirate più forte e i conti facciamoli
dopo».
(Fonte Il Romanista)
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