Ricominciamo dalle periferie

Ricominciamo dalle periferie

Di Giuseppe Orlandi

Per rilanciare la sfida e contendere il primato assoluto di titoli mondiale al Brasile è necessario ricominciare ad investire sulle strutture esterne allo stadio. Il concetto per quanto apparentemente paradossale ha precisi riferimenti storici che affondano le radici nella grande tradizione calcistica italiana. Un campione o un semplice professionista del pallone negli anni post-bellici e fino a qualche anno fa si forgiava e affinava il proprio talento nei campi improvvisati nelle periferie delle grandi città o nei piccoli borghi, tra una bottega di un artigiano e un negozio di alimentari, negli oratori sempre affollati di ragazzi, nei campi ricavati nelle campagne arse dal sole nel pieno dell’estate mediterranea. Il clima che si respirava in quel periodo era quasi bucolico e sereno, ogni tanto qualche vetro si rompeva per eccesso di impegno e non mancava la sgridata della signora disturbata durante il riposo pomeridiano dal gioco frenetico. Malgrado tutto era evidente la sensazione di coinvolgimento popolare verso le iniziativi propositive delle giovani leve e credo fermamente nella tesi di molti sociologi ed economisti che addirittura vedono una linea di contiguità con lo stesso fenomeno unicamente italico che gli storici definiscono “miracolo economico italiano”. L’Italia si metteva in moto incominciava a correre non solo nel calcio e nello sport ma, soprattutto, nella sfida economico-industriale lanciata alle grandi potenze economiche mondiale. Era evidente la sensazioni che si poteva e si doveva vincere la sfida della ricostruzione nello sport come nella produzione industriale e nel rilancio economico. In quegli anni nasce di fatto il marchio “Made in Italy” che per sempre identificherà i grandi prodotti industriali italiani. Molti di questi marchi affini allo sport: dalla Ferrari alla Garelli che stravinceva mondiali nelle categorie minori del motociclismo e l’ Augusta nella categoria regina, alla Bianche nel ciclis! mo ed altre. Senza demagogia vinceva l’Italia e nessuno si s! entiva e scluso. Il riferimento calcistico al Brasile non è causale né tantomeno presuntuoso o irriverente. La capacità innata dei calciatori brasiliani di colpire il pallone con potenza senza mai maltrattarlo come fosse un oggetto prezioso da custodire si giustifica con la predisposizione della popolazione a condividere momenti di collettività con gioia anche in momenti di ristrettezze economiche. Il calcio era un rito collettivo che non escludeva nessuno, anche a piede nudi si poteva calciare un pallone e se mancava un prato verde regolamentare anche un pezzo di spiaggia andava bene. Le difficoltà oggettive e strutturali di fatto hanno incoraggiato la formazione di una vera scuola: quella brasiliana ancora oggi vincente malgrado la sconfitta mondiali. Alla base di tutto c’è la voglia di realizzare attraverso il gioco del calcio, per un attimo lungo novanta minuti qualcosa di simile alla felicità.
Nel nostro campionato invece lo spazio riservato al gioco del “pallone” da qualche anno è stato declassato ad un livello inferiore tradendo, di fatto, l’attenzione che la nostra scuola calcistica, quella italiana, ha riservato da sempre ai cosiddetti fondamentali: il palleggio, il tiro da fermo, al volo lo scambio stretto ecc. L’allenatore è diventato semplice selezionatore, mentre i preparatori atletici hanno frainteso le finalità del gioco del calcio ponendo in evidenza semplicemente l’aspetto muscolare ed atletico. In questi giorni, durante i mondiali indipendentemente dall’esito finale, vediamo giocare squadre del nord Europa( Germania, Olanda, la stessa Inghilterra già eliminata) con giocatori abili a dribblare l’avversario, a correre negli spazi, a proporsi per ricevere palla come fossero loro i latini. Noi invece puntiamo solo all’inutile pressione agonistica sui portatori di palla avversari che diventa spesso improduttiva quando gli scenari sono mondiali e aumenta la specifica qualità dei singoli. Rimane un dubbio: Conti, Causio, Claudio Sala, Fanna lo stesso Baggio fino a Donadoni, tutti abili nel correre senza rincorrere, nel cercare l’affondo negli spazi oggi, forse, nel nostro calcio meno orgoglioso della propria tradizione rimarrebbero esclusi. Mai come oggi sarebbe utile riconsiderare il più italiano tra gli allenatori: il Ceco Zeman.

Giuseppe Orlandi

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