Il calcio moderno, in specie il calcio europeo, postula infatti vieppiù l’assimilazione, da parte dei suoi interpreti – siano essi calciatori, allenatori, dirigenti, presidenti - della filosofia del “calcio-totale” di sacchiana memoria (non ce ne vogliano il Barone Liedholm e l’Olanda di Crujff). Basta in tal senso guardare il Barcellona di Guardiola (non ce ne vogliano in questo caso i vari Van Gaal, Rijkard) o meglio alla sua Cantera: lì i giovani crescono e si nutrono di calcio-totale, non di solo calcio.
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Mario Balotelli non è nato calciatore totale, forse lo morirà (l’Italia avrebbe un gran bisogno di “lutti” siffatti).
Il tormentone che lo ha visto protagonista in negativo è peraltro foriero di un messaggio subliminale che ai più pare essere sfuggito. L’esuberanza e la spontaneità del colosso, fisico e tecnico, nerazzurro hanno palesato quella che è l’ultima frontiera del calcio totale, vale a dire la “comunicazione globale”.
La gestione dell’immagine, il palleggio tra razionalità, fantasia e inconscio individuale collettivo sono divenuti oggi l’altra imprescindibile faccia del calcio totale, l’aggiunta del pepe al sale del calcio moderno: siamo entrati nell’era del calcio globale.
Lo scontro fra il messia del calcio-globale, l’anello di congiunzione tra calcio-totale e calcio-spettacolo – Josè Mourinho, il vate di Setùbal – ed il giovane Werther Balotelli, inerme al cospetto dell’immane fenomeno calcistico ha sortito l’effetto più immediato: la necessità di un interlocutore privilegiato sul fronte comunicativo (Raiola e Rigo); ma anche l’effetto meno immediato della spettacolarizzazione (o strumentalizzazione) del calcio-globale vale a dire, ictu oculi, un corto circuito tra stampa, squadra, calciatore, tifoso.
Benvenuto nel nuovo mondo, Mario: prova a diventare globale allora, non solamente spettacolare!
Ignazio Impastato
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